Concorso “ANTONIO GRIECO…In Memoriam“
L’Avv. Simona Aduasio – Prima Classificata
“Qualunque cosa sappia, dovunque io vada, sono vincolato dal segreto cliente-avvocato, sono più o meno come… no, è meglio dire che sono esattamente come una nave con un carico che non raggiungerà mai nessun porto e, finché io sarò vivo, quella nave sarà sempre al largo”.
(dal film “Il socio” di Sydney Pollack, 1993)
“Riserbo e segreto professionale
alla luce dell’art. 28 del codice deontologico forense”
di Simona Aduasio
La deontologia forense “ha uno dei suoi pilastri fondamentali nella tutela della riservatezza del rapporto avvocato-cliente, che impone al primo il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo”.
Così il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 130 del 23 luglio 2013, definisce uno dei princìpi cardine della professione forense, dalla configurazione anfibia[1] in quanto allo stesso tempo dovere e diritto, “vincolo e garanzia”[2] per gli avvocati.
Per vero, se l’art. 13 del Codice Deontologico Forense prescrive in capo all’avvocato il dovere di segretezza e riservatezza a tutela del cliente e della parte assistita, l’art. 28 C.D.F. è norma posta a presidio non solo di questi ultimi, ma soprattutto, in senso più ampio, a garanzia del diritto di difesa di rango costituzionale di cui l’avvocato è interprete e custode.
Si tratta di una disposizione che estende i suoi effetti sul piano dei destinatari, in quanto impone all’avvocato di adoperarsi affinché i propri dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali, rispettino il segreto professionale e il massimo riserbo sui medesimi fatti e circostanze sopra elencate.
Il massimo riserbo richiesto al difensore, ma altresì vantato dall’avvocato quale diritto, è un corollario del generale principio di fedeltà (art. 10 C.D.F.) nei confronti della parte assistita, sia nello svolgimento della propria attività professionale e nell’adempimento della propria funzione sociale, sia nella condotta che è tenuto ad assumere successivamente all’esaurimento del mandato (art. 28, canone 2, C.D.F.).
L’origine del dovere di fedeltà–riserbo si trae, in linea di principio, dall’essenziale fiduciarietà del rapporto avvocato-cliente, sancita dall’art. 11 C.D.F. e dal rango primario che l’art. 24 della Costituzione conferisce al diritto di difesa e, quindi, alla funzione defensionale tecnica. Il diritto di difendersi comprende infatti anche il diritto di scegliersi il difensore e necessita del rispetto del massimo riserbo e del segreto professionale prescritti a tutela del cliente e della parte assistita, ma allo stesso tempo garantiti all’avvocato.
Si fa in primo luogo riferimento ad un dovere – già oggetto dell’art. 13 C.D.F. – in quanto espressione di un vincolo etico, definito perfino “sacrale”, ancor prima che giuridico, cui l’avvocato è tenuto nell’adempimento del mandato e successivamente allo stesso.
Per vero, in virtù del “ruolo speciale” che è loro proprio, agli avvocati non si applicherebbero i doveri morali dell’uomo comune, ma quelli speciali della professione forense[3].
Passando in rassegna il Codice Deontologico si avverte infatti un crescendo d’intensità ed un progressivo avvicinamento del precetto di riservatezza e segretezza alla sfera etica dell’avvocato: partendo dal suo comportamento in costanza di mandato, transitando al comportamento che deve tenere a mandato esaurito, pervenendo a porre dei limiti alla tutela di suoi pur legittimi interessi.
L’art. 28 C.D.F. si manifesta altresì quale diritto al massimo riserbo e al segreto professionale in quanto strumenti per la piena tutela ed estrinsecazione del diritto di difesa. È un diritto riconosciuto all’avvocato nella misura in cui gli sia necessario ai fini della difesa tecnica del proprio assistito, ma è prima di tutto un diritto del cliente stesso che affida il mandato.
La fiduciarietà del rapporto avvocato-cliente assume dunque rango primariamente qualificato nell’ordinamento: il nemo tenetur se detegere, nella versione attiva del diritto a difendersi, il diritto – parimenti costituzionale – di agire a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, dal momento in cui vengono posti dalla fiducia del cliente nelle mani del difensore, impongono a quest’ultimo il sacrale, prima che giuridico, vincolo a tener riservato quanto tra di loro intercorre con riferimento alla trattazione di ciò che è oggetto del mandato difensivo[4].
In sintesi, il rispetto di tale vincolo da parte dell’avvocato costituisce condizione imprescindibile per la realizzazione del diritto costituzionale del cittadino a difendersi.
Ciò vale non soltanto – come si potrebbe semplicisticamente immaginare – per l’assistito che sappia di non essere innocente. La regola del massimo riserbo e del segreto professionale, riassunta nell’espressione anglosassone “confidenciality”[5], giova per vero anche agli innocenti e, ancor più, a coloro che non sappiano di essere tali in quanto privi della necessaria competenza tecnico-giuridica.
La “lealtà divisa”[6] dell’avvocato tanto verso lo Stato quanto nei confronti di chi è accusato di averne violato le regole lo pone quotidianamente in una dimensione che potrebbe apparire ambigua. L’avvocato però “non può avere perplessità: il suo posto è accanto al cittadino coinvolto nelle strettoie della giustizia e la sua fatica consiste nello studiare e praticare le scelte a questo più favorevoli”[7].
Il riserbo e la segretezza professionale dell’avvocato sono tuttavia princìpi che non esauriscono i propri effetti nell’ambito deontologico: le previsioni di cui agli artt. 200 c.p.p. e 249 c.p.c. traducono sul piano processuale-sostanziale il contenuto normativo dei canoni di cui all’art. 28 C.D.F., prescrivendo espressamente la facoltà degli avvocati di astenersi dal deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria[8].
L’obbligo dell’avvocato di rispettare il segreto professionale tutela invero sia gli interessi dell’amministrazione della giustizia sia quelli del cliente ed è per questo motivo che esso gode di una speciale protezione anche a livello processuale e penale.
Occorre chiedersi però fino a che punto l’avvocato sia tenuto al rispetto del dovere di riserbo e segreto professionale. Se, cioè, l’avvocato dovrà – come una nave cui è stato affidato un carico – non far raggiungere mai alcun porto a quel carico o se, invece, potrà derogare alla regola “aurea”[9] di cui all’art. 28 C.D.F.
Il difensore, pur essendo parte del sistema legale ed essendo – nei limiti della propria attività – responsabile della “qualità della giustizia”, è infatti per prima cosa un “rappresentante del cliente”. È questo il ruolo che viene definito nella cultura giuridica americana di “partisan advocacy”, in cui l’avvocato è un “partigiano neutrale”, caratterizzato non già da “amoralità”, bensì da una “moralità funzionale”[10].
Il dovere di lealtà e probità dell’avvocato, il cd. “candor”, non si spinge sino a comprendere il dovere di impegnarsi al raggiungimento della verità, eccezion fatta per le dichiarazioni in giudizio relative all’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato[11].
Secondo il modello che alcuni autori definiscono quale visione “standard” della deontologia forense, l’avvocato deve perseguire gli interessi del cliente senza preoccuparsi delle implicazioni morali che potrebbero, per certi versi, macchiarne il “candor”[12].
In una visione di tal fatta, lo spessore deontico dell’etica professionale perde di densità[13] e l’avvocato a “null’altro criterio è sottomesso che a quello della massima utilità per il proprio cliente”[14].
Così prospettando la funzione forense, l’avvocato diventerebbe un mero rappresentante processuale che agisce come un “distaccato sicario”[15], un “bad man”[16] estraneo a qualsivoglia influenza etica.
Invero, la norma che ci occupa prevede al canone quarto la possibilità che l’avvocato deroghi ai doveri di cui ai canoni precedenti, “qualora la divulgazione di quanto appreso sia necessaria” per alcune ipotesi tra le quali spicca, alla lettera a), lo “svolgimento dell’attività di difesa”.
Non sono mancati peraltro i casi in cui è stata esclusa la responsabilità disciplinare dell’avvocato che avesse violato, per ragioni etiche, il dovere di riserbo e segreto professionale.
Più precisamente, nel noto episodio riguardante l’omicidio di Piazzale Lotto, il difensore fu assolto dal procedimento disciplinare sulla scorta della distinzione operata dal Consiglio dell’Ordine di Milano tra il segreto professionale in sé e il contenuto del segreto, come affermazione cognitiva concreta. L’avvocato infatti “non aveva dichiarato il contenuto materiale di un segreto professionale, ma la cornice di un contenuto non rivelato… (ed infatti) rivelare un segreto significa manifestarne l’oggetto, non già asserirne l’esistenza. L’esistenza di un segreto non è essa stessa cosa segreta. Al contrario, è proprio l’allegazione di quel vincolo ciò che protegge dalla curiosità o dall’investigazione degli altri un contenuto che non deve e non può essere rivelato”[17].
In conclusione, emerge come il nostro sistema deontologico non sia improntato alla “badness” dell’avvocato, ma sia invece ispirato alla creazione di un “ambiente ideale” nel quale si tende a tutelare nella maggior misura possibile il cliente e il suo rapporto di fiducia nei confronti del proprio difensore e, ove ciò non sia del tutto possibile, ad operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco.