Andria studio Legale Avvocato Simona Aduasio
Thyssen krupp
Sentenza Thyssen Krupp e responsabilità da reato degli enti
Estratto della tesi di laurea di Simona Aduasio
in Diritto Penale del Lavoro
dal titolo
“Responsabilità da reato e dolo eventuale: spunti di riflessione”
Sommario:
1. Introduzione
2. Societas delinquere potest: disciplina della responsabilità da reato degli enti prima e dopo il d.lgs. 231/01
3. Responsabilità da reato della Thyssen Krupp: sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Torino
- Introduzione
Una sentenza, pertanto, quella di primo grado sul caso Thyssen Krupp, che ha introdotto numerosi caratteri di novità nell’applicazione della disciplina della responsabilità da reato delle persone giuridiche e che ne ha sottolineato, in maniera evidente, la funzione specialpreventiva, nonché di strumento di politica criminale.
- Societas delinquere potest: disciplina della responsabilità da reato degli enti prima e dopo il d.lgs. 231/01
L’art. 27 comma 1 della nostra Costituzione definisce la responsabilità penale “personale”, riprendendo il brocardo “societas delinquere non potest” – il cui latino non deve far pensare che il diritto romano e quello comune arrestassero lo jus criminale alle sole persone fisiche – secondo il quale la responsabilità penale delle persone giuridiche si riteneva inconciliabile col principio dell’individualità della pena (“Peccata suos teneant auctores”).
Se prima del d.lgs. 231/01, dunque, si ricorreva a teorie che giustificassero l’irresponsabilità penale delle persone giuridiche (cfr. “teoria della finzione”, sostenuta da F.C. von SAVIGNY), si è giunti, grazie ad altre teorie (cfr. “teoria della realtà”), e non solo in Italia, ad una «responsabilizzazione penale» degli enti, eliminando l’ormai obsoleto principio dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche.
Resta, però, il problema della cosiddetta «negazione» – cioè dell’impossibilità di attribuire una responsabilità di natura penale agli enti – che risiede nella loro incapacità innanzitutto di agire (e, più specificamente, di agire dolosamente o colposamente), in secondo luogo, di essere soggetti passivi di un giudizio «eticizzante» e, infine, di percepire l’effetto afflittivo o rieducativo della pena.
Ad ogni buon conto, si è cercato di stabilire se l’articolo che dispone la personalità della responsabilità penale sia o meno una barriera invalicabile al superamento del principio societas delinquere non potest. E, se da una parte vi è chi sostiene che nell’ordinamento italiano non c’è posto per la responsabilità penale di soggetti non individuali, di opinione opposta è invece l’altra voce, altresì sostenuta da due sentenze della Corte Costituzionale (sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988), che non vede l’art. 27 comma 1 Cost. come una barriera insormontabile.
- Responsabilità da reato della Thyssen Krupp: sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Torino
Uno dei casi più emblematici di applicazione del d.lgs. 231/01 è rappresentato dalla sentenza di primo grado di condanna della Thyssen Krupp pronunciata dalla Corte d’Assise di Torino, che ha riconosciuto in capo alla società la responsabilità da reato ex art. 25-septies del citato decreto legislativo (omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro). Tale responsabilità è stata attribuita all’acciaieria di Torino in quanto i cd. “reati-presupposto” – tra i quali rientra, all’art. 25-septies del d.lgs. 231/01, l’omicidio colposo, con l’ulteriore riferimento alla violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro – erano stati commessi nell’interesse e vantaggio dell’ente da soggetti apicali appartenenti alla compagine sociale (specificamente si tratta di due membri del Comitato Esecutivo, del Direttore dello stabilimento di Torino, del Direttore dell’area tecnica e servizi, del Responsabile dell’area ecologia – ambiente – sicurezza), soggetti che, come previsto dall’art. 5 lett. a) del d.lgs. 231/01, “rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”.
Occorre, però, soffermarsi sulla norma che prevede la responsabilità degli enti per il reato di omicidio colposo commesso dai vertici degli stessi e che ha permesso la condanna della Thyssen Krupp: si tratta, come già detto, dell’art. 25-septies del d.lgs. 231/01, che – introdotto dall’art. 9, comma 1, della legge 123 del 2007 e poi riformulato, in particolare quanto al trattamento sanzionatorio, dall’art. 300 del T.U. in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008) – segna l’ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità degli enti.
La Corte d’Assise di Torino, pertanto, per accertare la responsabilità dell’ente, conseguente a quella dei cinque imputati-persone fisiche per il reato di omicidio colposo plurimo, ha verificato in primo luogo che sussistesse il presupposto dell’interesse o vantaggio, che ha indotto le stesse persone fisiche ad agire (o, nel caso di specie, ad omettere colpevolmente di agire, secondo il disposto del 2° comma dell’art. 40 c.p.) e quindi, in negativo, che i soggetti agenti non abbiano agito od omesso di agire al fine di perseguire un “interesse proprio o di terzi”.
Oltre al presupposto appena analizzato, la Corte torinese ha dovuto altresì verificare la sussistenza del cosiddetto “modello di organizzazione e gestione”. Basterebbe invero, ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 231/01, la prova da parte dell’ente di aver adottato tale modello prima della commissione del fatto, per non rispondere del reato commesso dal proprio esponente in posizione apicale.
Il modello di organizzazione deve essere idoneo a “prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi”: nel caso della Thyssen Krupp tale modello non solo non era idoneo, ma era addirittura inesistente. Interessante, a questo proposito, l’obiezione difensiva sulla “automaticità” della sussistenza della responsabilità dell’ente in caso di omessa adozione del sopra indicato modello, in base alla quale si genererebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova,tale per cui ci sarebbe (come c’è) “la necessità che l’ente fornisca innanzi tutto la prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a tal fine”.
“Il vantaggio della interpretazione qui proposta sarebbe, peraltro, il ritorno alla normale distribuzione degli oneri probatori: l’ente deve dimostrare la conformità del Modello adottato alla disciplina legislativa (…); l’accusa deve provare l’eventuale inadeguatezza dello stesso”.
La sentenza della Cassazione n. 36083/09 afferma che “la mancata adozione di tali modelli, in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi sopra indicati (reato commesso nell’interesse o vantaggio della società e posizione apicale dell’autore del reato) è sufficiente a costituire quella ‘rimproverabilità’ di cui alla relazione ministeriale al decreto legislativo e ad integrare la fattispecie sanzionatoria, costituita dall’omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose”. “In tale concetto di ‘rimproverabilità’ è implicata una forma nuova, normativa, di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale, avendo il legislatore ragionevolmente tratto dalle concrete vicende occorse in questi decenni, in ambito economico e imprenditoriale, la legittima e fondata convinzione della necessità che qualsiasi complesso organizzativo costituente un ente ai sensi dell’art. 1.2 d.lgs. cit., adotti modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire la commissione di determinati reati”.
E ciò che deriva dalla mancata adozione ed efficace attuazione di un idoneo modello organizzativo e gestionale è proprio questa nuova forma di colpevolezza, la cosiddetta “colpa di organizzazione” (o anche “colpa in organizzazione”).
Questo criterio soggettivo di imputazione del reato all’ente si pone, secondo alcune voci, a dimostrazione dell’intenzione del legislatore del 2001 di non delineare, a carico dello stesso, una forma di responsabilità oggettiva e di porsi, allo stesso tempo, come criterio distinto e autonomo dalla colpevolezza della persona fisica autrice del reato, quindi come criterio rivolto non più ai singoli, bensì all’intero complesso aziendale, di strutture complesse, dove l’infortunio è frutto di carenze organizzative prima che di errori individuali.
Si può perciò concludere che si utilizza il termine di colpa o di colpevolezza adattando al fenomeno della “irresponsabilità organizzata” quello che in realtà è un concetto penalistico proprio dell’uomo: “al contrario la colpa che qui si illustra resta fatalmente e fortemente oggettiva, tanto che alla sua esclusione, con l’attuazione dei modelli organizzativi, concorrono elementi differenti, persone diverse, attività protratte nel tempo. (…) Si ha a che fare con una «colpa» intessuta esclusivamente da elementi oggettivi, riconducibili all’operato di una moltitudine di soggetti, che non si vede come possano lasciare spazio ai tradizionali elementi psicologici della colpa, ridotti ma esistenti (e, a maggior ragione, del dolo)”.